La sostanziale staticità della società preindustriale si sovrappone all’immobilità delle potenzialità produttive dell’ambiente, mosse da un’evoluzione che conosce solo la lentezza dei tempi biologici. Gli alimenti di origine vegetale oggi noti sono praticamente quasi gli stessi del Neolitico. I ritrovamenti archeologici dei semi di diverse granaglie, come fave, lenticchie, orzo, miglio e grano evidenziano lo sfruttamento antichissimo di molte piante alimentari tuttora in uso.
Anche le trasformazioni alimentari più comuni, come le polente, le focacce, il pane, la birra, il vino, l’olio, sono rimaste sostanzialmente identiche.
Nello sforzo di definire i determinanti storici del modello alimentare mediterraneo, consideriamo innanzitutto la comune presenza di alcuni alimenti fondamentali, che caratterizzarono le prime forme note dell’alimentazione mediterranea e che hanno attraversato oltre 2000 anni di storia. Il grano e l’orzo per il pane, la vite per il vino, l’olivo per l’olio, sono le risorse naturali che l’ambiente mediterraneo ospita fin dall’epoca delle prime civiltà e che necessariamente sono state prese quali elementi emblematici dei modelli alimentari della cultura greco-romana, così come della stessa idea di cibo mediterraneo.
Se alla civiltà greca va riconosciuta un’indiscussa primogenitura per gran parte di quello che materialmente e culturalmente sarà in seguito tramandato all’occidente, è nella forza coesiva della civiltà romana che per tutta la regione mediterranea può forse essere trovata una sintesi ideale dell’alimentazione dell’evo antico. Un ruolo che insieme alla collocazione temporale riassume la varietà di tutti i diversi ed eterogenei aspetti geografici dell’ambiente mediterraneo e di quello ad esso circostante; dalle coste dell’Africa alla pianura padana, dalla Grecia all’Italia insulare, la presenza romana abbraccia una tale vastità di paesaggio da essere un testimone privilegiato della realtà materiale e culturale presente all’interno dei confini del mondo.
Il cibo dei Romani, lungi dall’essere il cibo di tutte quelle popolazioni che vivevano sulle sponde del Mare Nostrum, riassume idealmente la cultura alimentare mediterranea del mondo antico, ne costituisce l’eredità ultima e la base per le future trasformazioni.
Il pane, l’olio e il vino
Il XVIII libro della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio si apre con la classificazione e l’esame dei singoli cereali. è questo il libro più esteso della sua grande opera ed è dedicato agli alimenti; se comincia proprio dai cereali è perché, insieme ai legumi, essi costituivano il centro dell’universo alimentare dell’antica Roma.
Il legame fra i due tipi di alimenti è duplice: da un lato i cerali uniscono all’alto contenuto di amido un’apprezzabile tenore proteico complementare a quello dei legumi; dall’altro vi è un legame agronomico: le coltivazioni di legumi arricchiscono il terreno di azoto, integrandosi con quello depauperante dei cereali. Infine entrambi erano accomunati da una facile e durevole conservabilità. Sono tutti questi i fattori in grado di spiegare l’antichità e l’essenzialità di un’associazione che appare costante nei campi e nelle cucine.
Ma è nella possibilità della trasformazione alimentare che va ricercato il motivo per cui i cereali si mostrano superiori ai legumi. Pane e birra, ad esempio, bastano a spiegarlo.
L’orzo rimane il più antico dei cibi, primo cereale dell’alimentazione mediterranea, poi soppiantato dal frumento. Quest’ultimo, anche se più delicato sia per la coltivazione che per la conservazione, permetteva una lievitazione ottimale per il suo più alto contenuto in glutine. Sarà questa trasformazione, indotta da lieviti e batteri, che farà divenire la farina di frumento l’elemento costante della cultura alimentare popolare mediterranea: il pane.
Sarà così misurato il ceto sociale e la possibilità di sfamarsi adeguatamente con la percentuale di altre farine con cui si era costretti ad impastare il proprio pane.
Ma il frumento e il pane, rimanevano e rimangono la base dell’alimentazione mediterranea.
“E la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco essa aveva nel becco un ramoscello d’ulivo. Noè comprese che le acque si erano ritirate dalla terra” (Genesi 8,11).
Il significato simbolico della colomba e dell’ulivo persistono fino ai nostri giorni quali messaggeri di pace e rinnovamento. Dell’ulivo la Bibbia però non parla solo in modo simbolico, anche se la sua capacità di rigettare anche dopo la morte del tronco, unita alla sua longevità, fanno dell’ulivo un albero “immortale”; ne parla anche riferendosi alla sua importanza economica e materiale.
L’olio, d’altronde, era usato presso tutte le popolazioni circummediterranee come cibo, ma soprattutto per l’illuminazione, le abluzioni e la cura del corpo. L’attuale uso quasi esclusivamente alimentare dell’olio è dovuto ad una inversione di tendenza, che ha la sua origine nelle profonde trasformazioni materiali e culturali che alla fine dell’evo antico e all’inizio dell’alto Medioevo si ebbero soprattutto nelle regioni mediterranee occidentali: da un lato le ripetute invasioni barbariche che determinarono una ruralizzazione sociale che spingeva verso l’autoconsumo; dall’altro la cristianizzazione dell’Occidente diffuse un modello culturale che aveva uno dei suoi punti di forza nella “negazione del corpo” e di quelle cure a lui dedicate che avevano caratterizzato sia la cultura greca che quella romana.
La “cristianizzazione dell’olio”, insomma, ha fatto sì che si determinasse fino ai nostri giorni uno spostamento dell’impiego dell’olio dall’esterno all’interno del corpo.
Il terzo alimento per eccellenza, che completa la triade della mediterraneità nel campo dell’alimentazione, è il vino.
Molti erroneamente ritengono che fosse apprezzato dalle popolazioni circumediterranee soprattutto per il suo potere inebriante, il vino, invece, come tutte le bevande alcooliche, era la più popolare forma di alimentazione, indispensabile laddove non si poteva disporre di acqua sicura per la salute. Difficoltà quasi insuperabile, soprattutto per le popolazioni inurbate.
Mentre in oriente l’abitudine di sorbire tè, in sostanza acqua bollita resa meno sgradevole dal profumo di alcune foglioline di Camellia sinensis, garantiva la salute dalle acque infette, in occidente ci si rivolgeva al vino e alla birra. Le due abitudini alimentari, hanno determinato due “specializzazioni” diverse: mentre in occidente quasi tutti hanno l’enzima indispensabile per la completa metabolizzazione dell’alcool, non è così in Asia, dove circa la metà di quelle popolazioni ne è sprovvista. Ecco una prova, a nostro avviso, che fattori culturali, pur dettati da esigenze ambientali, sono in grado di influire sull’evoluzione della nostra specie.
Se fu la birra la prima bevanda fermentata di popoli che frequentavano il Mare Nostrum (tavolette di argilla mesopotamica, risalenti a più di 6000 anni fa, riportano ricette per la fabbricazione della birra), fu poi il vino ad affermare il suo primato nel Mediterraneo. Un vino indubbiamente diverso da quello a noi familiare, contenente notevoli quantità di acido acetico ed altri acidi organici che si sviluppavano liberamente nel corso della fermentazione, e che lo faceva somigliare più all’aceto che al Brunello. Era però molto adatto a rendere potabile l’acqua.
Sia il Nuovo che il Vecchio Testamento non fanno quasi mai cenno all’acqua come bevanda; identicamente i testi greci, fatta eccezione per alcuni scritti che vantano le particolari virtù di sorgenti montane, menzionano assai raramente le qualità dissetanti dell’acqua. Tutto questo fa presumere che nel modo occidentale, a causa di costanti assunzioni di piccole quantità di alcool, la condizione “normale” fosse, probabilmente in una rilevante parte della popolazione, quella di una seppure leggera alterazione da alcool.
Cionondimeno, alla bevanda va riconosciuto che anche il contenuto calorico, come l’apporto di micronutrienti essenziali, vitamine e sali minerali in essa contenuti, deve comunque aver avuto una notevole importanza dal punto di vista nutrizionale in popolazioni che dovevano far fronte normalmente a carenze alimentari.
…….. e la pasta ?
Orgoglio nazionale o insopportabile e logoro stereotipo, a seconda delle opinioni, la pasta è più che mediterranea soprattutto italiana. Certamente fonte di reddito, essendo l’Italia la prima nazione produttrice di pasta (anche se più recentemente l’affermarsi della “dieta mediterranea” ha visto molte nazioni, Stati Uniti in testa, attrezzarsi per questo tipo di produzione), il successo di questo alimento è dovuto all’ottimo potere nutritivo e al basso prezzo.
La pasta è però alimento non antico come il pane: essa viene affermandosi soprattutto in seguito alla coltivazione dei grani duri nel sud della penisola, nel genovese e in Toscana, come impasto di farina di grano duro e acqua; mentre l’impossibilità di coltivare grani duri impone alle tradizioni padane un altro tipo di pasta, confezionata con farina di grano tenero, acqua e uova.
Le tappe geografiche della diffusione di questo alimento non sono chiare; si sospetta una probabile matrice orientale e araba, ma per la terminologia che la descrive in modo non omogeneo e i diversi ingredienti locali che venivano utilizzati per i vari tipi di impasti, è molto difficile fare congetture attendibili.
Di sicuro sappiamo che, pur essendo già nota nel duecento, la piena diffusione della pasta, così come noi la conosciamo, si è avuta intorno alla metà del settecento, quando già da alcuni decenni nel napoletano si era accompagnata al condimento a base di formaggi, diventando “maccheroni”.
La centralità di questo alimento, che ben si conserva essiccato, e che cotto si associa volentieri anche a verdure e condimenti a base di carne, a seconda del ceto e dei giorni più o meno “ricordevoli” dell’anno, è storia contemporanea e nostra abitudine quotidiana.
Crediti
Autore: Anna Lacci è divulgatrice scientifica ed esperta di educazione all’ambiente e alla sostenibilità e di didattica del territorio. E’ autrice di documentari e volumi naturalistici, di quaderni e sussidi di didattica interdisciplinare, di materiali divulgativi multimediali.