Lo Scricciolo (Troglodytes troglodytes) è un piccolo, paffuto uccelletto di color bruno finemente striato, dall’aspetto fiero ed impertinente che non raggiunge i 10 centimetri di lunghezza. La breve codina è tenuta costantemente in su, contribuendo a dargli una vaga aria da attaccabrighe. Se il canto è decisamente forte e melodioso, con note musicali ed acuti persistenti, quando allarmato può tramutarsi in una sequenza aspra da cui ha avuto origine il nome onomatopeico di scricciolo, con cui è ufficialmente noto. Lo zoologo settecentesco Jean Luis Buffon lo paragona con ragione (becco a parte) ad una “becasse en mignature” una piccola beccaccia, ed in Romagna è detto “coccla” ossia noce in analogia di grossezza, rotondità e colore con questa.
Vivacissimo, si muove costantemente nel fogliame del sottobosco in cerca di insetti, larve, ragni perfettamente a suo agio nei forteti mediterranei così come nei boschi di latifoglie delle colline e montagne, rufolando tra le foglie morte tanto da sembrare un piccolo roditore. Altro nome che ben gli si addice è quello di foraboschi o foramacchie, appunto per la disinvoltura con cui si aggira tra le frasche ed i rovi.
Certamente curioso è il fatto che un po’ ovunque è detto Re di uccelli e con tal nome lo chiama Antonio Valli già nel ‘600, in uno dei primi testi di ornitologia italiana. Un nome tanto altisonante senz’altro deriva da una delle più antiche leggende anglosassoni, in cui si vagheggia che lo scricciolo riuscì a farsi eleggere re di tutti gli uccelli con uno strattagemma: sarebbe stato proclamato re chi fosse riuscito a volare più in alto. L’aquila si librò su tutti sicura di essere incoronata, ma uno scricciolo era nascosto tra le penne della sua coda ed uscendo al momento opportuno, la superò di qualche centimetro, intonando da lassù il suo canto trionfale.
Il suo areale di distribuzione è enorme ed inusitato, occupando gran parte dell’emisfero artico dalla California all’Asia. Pare anzi che l’origine primigenia della famiglia sia il nord America, da cui lo scricciolo sarebbe poi arrivato fin da noi, costituendo una delle non frequenti specie a distribuzione oloartica.
Una dozzina sono le forme sotto specifiche descritte, quelle che una volta eran dette razze geografiche, con cui si adatta a situazioni climatiche e di habitat tanto differenti. Del tutto complessa è anche la situazione dei movimenti, in quanto esistono popolazioni migratrici ed altre stanziali. Le prime durante le migrazioni si mescolano alle seconde durante lo svernamento, con fluttuazioni popolazionistiche ancora non descritte compiutamente. I movimenti sono sia latitudinali (nord sud e viceversa) sia di quota, scendendo in pianura con il freddo da habitat in quota.
Gli individui stanziali sono legati al loro territorio per tutto l’anno, mantenendo un’attività canora continua e non solo durante l’epoca degli amori, come accade per tante altre specie di passeriformi. La sua attività canora ha sia il significato di tener lontani dal territorio maschi rivali che di elemento centrale del corteggiamento con cui irretisce più femmine in contemporanea, è infatti una specie poliginica. La possibilità di dividersi tra più femmine pare sia legata in prima istanza alla complessità strutturale dell’habitat frequentato: maggiore è la densità della vegetazione e del suo intrico, più alto il grado di poligamia. Disponibilità di cibo e di luoghi dove fare i suoi diversi nidi sono elementi altrettanto cruciali. Fattori ulteriori che hanno portato alla poligamia sono: la scarsa partecipazione del maschio all’allevamento dei piccoli; il fatto che è solo la femmina a covare; l’attitudine innata a costruire più nidi in ogni caso; l’evento di nutrire piccoli di altre specie o di conspecifici da parte sia del maschio che della femmina; un legame di coppia assai lasso.
Il fine ultimo di una strategia riproduttiva poliginica risiede nella possibilità del maschio di inseminare più femmine, procurandosi in tal modo la possibilità di portare i propri geni più facilmente nelle successive generazioni. Inoltre è indubbio che l’incontro con più femmine porti ad una maggiore diversità genetica… fatto che, come si suol dire, non fa certo male in termini evolutivi e di stabilità delle popolazioni.
Generazioni di ornitologi si sono sperticati nel descrivere le abilità dello scricciolo maschio nel costruire il nido, essendo la femmina nulla più che una rifinitrice, dando il suo aiuto solo per completare l’imbottitura interna. Tra questi il Bacchi della Lega, ornitologo romagnolo dell’ottocento, si esprime così: “Potenza di un dio che riunisce in questa creaturina l’abilità del tessitore, il genio di un architetto, il cuore di un capo di famiglia, l’avvedimento di un saggio!”
Lo pone infatti nei luoghi più vari, naturali e non, ma sempre ben riparati: una buca del terreno, una spaccatura d’albero, l’anfratto di una casa diroccata, una capanna di boscaioli, nidi abbandonati da altre specie come la rondine e perché no nella tasca di un vecchio cappotto appeso in un garage o nel vano motore di un’auto abbandonata. La forma è globulare, a più strati, che se all’esterno pare un ammasso di foglie secche, rivela all’interno l’intreccio accurato di fine materiale vegetale, muschio, pappi, ragnatele, a morbido supporto per le uova che verranno. Di lato lascia un rotondo foro d’ingresso in cui a stento penetra un dito, riparo sicuro da predatori ed intemperie. Fatto cruciale per una specie di minuta massa corporea, facile a perdere calore e dunque di alto valore adattativo. Ne costruirà diversi, sparsi nel suo territorio con funzioni varie, sia per accogliere le diverse femmine del suo harem, se in fase poliginica, che come rifugi temporanei: se le femmine sono in cova, non vuol certo restare all’addiaccio di notte.
Da ricordare (per chi scrive) sono gli episodi vissuti in Sardegna, dove vive una sottospecie diversa da quella del continente, nei casi in cui uno scricciolo rimaneva impigliato nelle reti che tendevamo per studiare la migrazione primaverile sull’isola. Vivaci ed intraprendenti non sopportavano di essere intrappolati, reagendo fieramente, finendo per formare una palla inestricabile con il tessuto della sacca della rete. Ciò rendeva l’operazione di recupero simile allo scioglimento del celeberrimo nodo di Gordio. Inoltre, in decine e decine di casi, era sempre la sacca più bassa a catturali, vista la loro abilità a rufolare nel sottobosco. Inginocchiati per terra, delicatamente tremebondi per non recar loro alcun danno, erano momenti da incubo, specialmente se quello che stavamo facendo accadeva nell’ultimo giro serale prima della chiusura delle reti. Il pericolo era allora che nelle reti restasse impigliato un pipistrello, visto il buio incombente. Nel caso… pila frontale, pazienza ancora maggiore e soprattutto addio cena!
Crediti
Autore: N. Emilio Baldaccini. Già Professore Ordinario di Etologia e di Conservazione delle risorse Zoocenotiche dell’Università di Pisa. Autore di oltre 300 memorie scientifiche su riviste internazionali e nazionali. Svolge attività di divulgazione scientifica. E’ coautore di testi universitari di Etologia, Zoologia Generale e Sistematica, Anatomia Comparata.