Le recenti condizioni meteo, che evidenziano come l’apocalisse climatica non è il futuro ma il presente, dovrebbero suggerirci che alcune delle questioni ambientali, che avrebbero già dovuto essere risolte da almeno due decenni, siano ormai ineludibili se desideriamo che la nostra specie possa continuare a vivere su questo Pianeta.
E’ singolare sentire frasi come “lo facciamo per il Pianeta” o che si chieda di cambiare alcuni comportamenti sbagliati “per amore del Pianeta”. Se continuano a sparire insetti a causa dell’avvelenamento da pesticidi e inquinamento non ne soffrirà il Pianeta, ma saremo noi a non avere più la possibilità di mangiare frutta e ortaggi, dovendoci accontentare delle poche piante ad impollinazione anemofila. Il vento, infatti, impollina praticamente solo graminacee e gimnosperme. Nel senso che o ci accontentiamo di mangiare solo pane e pinoli o smettiamo di coltivare utilizzando pesticidi.
Non è per amore del Pianeta che dovremmo smettere di incendiare i boschi e cementificare i letti dei fiumi, ma per evitare di rimanere seppelliti sotto le frane o annegati durante una inondazione.
Il grosso seracco che il 3 luglio 2022 si è staccato a Punta Rocca, nel ghiacciaio della Marmolada, travolgendo gruppi di escursionisti ha provocato 11 vittime e 8 feriti; il temporale autorigenerante (V-shaped) che il 15 settembre 2022 ha investito le vallate del Misa e del Nevola nelle Marche, ha provocato 12 vittime e una donna dispersa, centinaia di sfollati e danni stimati per 2 miliardi di Euro.
Mentre continuiamo a morire per guerre e disastri dovuti alla nostra incapacità di gestire risorse e territori, il Pianeta Azzurro continua serenamente a girare intorno alla sua Stella, incurante dei tentativi di suicidio della nostra specie. Forse in cuor suo ridacchia tutte le volte che sente il nome scientifico che ci siamo attribuiti: Homo sapiens sapiens. Sapiens non una volta, ma due!
Il risultato di tanta “sapienza”? L’accelerazione del cambiamento climatico. Che geni!
E così, mentre intere regioni del Pianeta vengono sconvolte da eventi drammatici, scopriamo che una ditta di piselli surgelati ha sostituito la busta di plastica che conteneva il prodotto con una di carta. Un evento dirimente per la salvezza dell’umanità!
Ma se mangiassimo legumi di stagione acquistati al mercato rionale che vende prodotti locali e poi li portassimo a casa in una borsa durevole, invece di far girare due etti di piselli per centinaia di chilometri chiusi in una busta (anche se di carta) e stivati in camion refrigerati? Quante emissioni di CO2 , dovute al consumo del combustibile dei camion e all’energia utilizzata per mantenere il prodotto surgelato, risparmieremmo?
Se entrassimo in un ipermercato e ci guardassimo intorno, valutando la percentuale in peso e volume degli imballaggi rispetto agli alimenti che contengono, resteremmo stupefatti dalla proporzione e sarebbe d’uopo chiederci cosa, in realtà, compriamo. Sono molti i consumatori che credono davvero che sostituire pochi etti di plastica con la carta, possa giustificare l’enorme quantità di CO2 che viene emessa in atmosfera dalla movimentazione delle merci e dai sistemi industriali di imballaggio. E non dimentichiamo di aggiungere l’enorme quantità di energia che serve per illuminare, riscaldare o rinfrescare l’enorme spazio che ospita un centro commerciale.
L’impossibilità di poter continuare con questo sistema economico che spinge ad un utilizzo non oculato delle risorse planetarie, deve innanzitutto indurci ad uscire dal ruolo di consumatori e cercare di entrare in quello di cittadini consapevoli di tutte le implicazioni che ogni nostra singola azione produce sulla nostra vita, quella del territorio e della comunità cui apparteniamo.
E’ certo difficile ignorare le sollecitazioni ad acquistare cose inutili, o addirittura dannose, per la nostra vita che ci vengono dai media, che invadono ogni piccolo spazio o momento della nostra quotidianità, ma l’alternativa non esiste. Senza toni drammatici, è necessario trovare una via per decifrare la complessità del mondo in cui viviamo e cercare il bandolo delle nostre responsabilità, per decidere in che modo confrontarci con il contingente.
Può essere anche divertente scoprire quante cose inutili hanno ingombrato il nostro vivere. E più divertente scoprire che alcuni di quelli che ci sembrano degli obblighi sociali che condizionano la nostra immagine, sono in realtà piccole schiavitù che ci si può scrollare di dosso senza alcuna sofferenza e con un gran senso di liberazione.
E’ stato sorprendente vedere come la 27a Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (COP 27), anche considerando il drammatico mutamento del quadro geopolitico determinato dalla guerra russo-ucraina, non sia riuscita ad attuare praticamente nulla di quanto i precedenti incontri avevano ratificato. Eppure, quanto sta accadendo a causa del modo dissennato con cui si gestiscono le risorse economiche e naturali non può sorprenderci, perché già dalla fine degli anni ’60 sono cominciati a squillare campanelli d’allarme che avrebbero dovuto far riflettere e cambiare rotta a governi e popolazioni di tutta la Terra.
In questo senso, penso sia interessante fare un breve resoconto di come, nonostante cinquant’anni di “avvertimenti”, siamo potuti giungere a questo punto, anche a costo di peggiorare la stima che abbiamo verso la capacità di raziocinio della nostra specie.
Nel 1968 Aurelio Peccei con Alexander King, chimico e imprenditore scozzese, invitarono a Roma, all’Accademia dei Lincei, un gruppo di trenta persone provenienti da dieci diversi paesi. Tra loro scienziati, economisti, filosofi, industriali e uomini d’affari. Era il primo passo verso la costituzione del Club di Roma, organizzazione non finanziata con fondi pubblici che si pose come obiettivo promuovere la comprensione delle sfide globali che cominciavano a prospettarsi per il futuro dell’umanità e proporre soluzioni attraverso l’analisi scientifica dei problemi.
Il presupposto era che le sfide fossero così interconnesse, che le istituzioni pubbliche tradizionali non potessero essere in grado di comprenderne appieno i contenuti e gli effetti e fosse quindi necessario individuare specifiche modalità idonee ad affrontarle. Sulla base di queste premesse venne avviato un progetto che si proponeva di studiare il futuro del Pianeta e soprattutto i limiti invalicabili di cui è necessario tenere conto.
Il primo documento preparatorio, il Project 1969, pose i lineamenti di una nuova scienza per programmare il futuro, basata sul presupposto che l’uomo e la natura costituiscono un macrosistema integrato. E’ nel giugno del 1970 che Jay Forrester, un ricercatore del MIT (Massachusetts Institute of Technology), propose di mettere su una simulazione delle interazioni tra i principali fattori che contribuiscono a determinare i problemi dell’umanità. La simulazione sarebbe stata realizzata utilizzando i computer, dei quali in quegli anni si stavano scoprendo le immense potenzialità.
Fu così che nel marzo del 1972, dieci anni dopo Silent Spring (Primavera silenziosa) di Rachel Carson e poco prima della conferenza di Stoccolma sull’ambiente umano (United Nations Conference on the Human Environment), apparve The Limits to Growth, un rapporto curato dal System Dynamics Group del MIT e presentato con una conferenza organizzata presso lo Smithsonian Institute di Washington.
Il Rapporto offriva una previsione sullo stato del mondo in un futuro prossimo, avvalendosi di un modello matematico che simulava l’andamento e la reciproca interazione di cinque fattori a livello globale: la crescita dell’industrializzazione, l’aumento della popolazione, l’insufficienza del cibo e dell’acqua necessari per far fronte al suo aumento, il progressivo consumo di risorse naturali non rinnovabili e il deterioramento dell’ambiente causato dall’inquinamento.
Molte saranno le simulazioni che si faranno negli anni seguenti, soprattutto per prevedere gli effetti del cambiamento climatico o del declino della biodiversità: tutte evidenzieranno come, riportando in un grafico il rinnovamento delle risorse naturali planetarie nel tempo, questo mostra un andamento pressoché lineare, mentre l’aumento dell’industrializzazione e della popolazione presentano una curva che tende verso l’alto.
Ma mentre il Rapporto, tenendo conto degli andamenti dei parametri relativi a quegli anni, prospettava una catastrofe imminente, gli attuali parametri danno risultati meno drammatici per i primi quattro fattori presi in esame, mentre la previsione del Rapporto sui limiti del Pianeta nell’assorbire le varie forme di inquinamento prodotte dallo sviluppo si è rivelata invece terribilmente corretta. La dimostrazione della correttezza di questa previsione è offerta oggi, oltre che dall’inquinamento diffuso, dal cambiamento climatico prodotto dall’incontrollata immissione nell’atmosfera di gas serra causati dalle attività umane.
Le sorti della nostra specie sono in pericolo anche per un altro importante fattore, che il Rapporto non prese in considerazione: le risorse rinnovabili. Gli ultimi decenni hanno visto un crescente tasso di estinzione sia di specie vegetali che animali; la biodiversità è ovunque in declino. Il rapporto pubblicato nel maggio del 2019 dall’IPBES, Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services, l’Istituto scientifico internazionale costituito nel 2012 per lo studio delle cause e degli effetti della biodiversità, ha documentato che la sua riduzione procede con una rapidità crescente dovuta all’inquinamento, all’industrializzazione e al cambiamento climatico, con gravi e forse irreversibili danni all’agricoltura e all’infrastruttura naturale che sostiene la vita dell’uomo.
Crediti
Autore: Anna Lacci è divulgatrice scientifica ed esperta di educazione all’ambiente e alla sostenibilità e di didattica del territorio. E’ autrice di documentari e volumi naturalistici, di quaderni e sussidi di didattica interdisciplinare, di materiali divulgativi multimediali.