Per scegliere e mantenere una direzione di movimento occorre una bussola. Ma a cosa serve una bussola se non conosco qual è la mia posizione rispetto alla meta da raggiungere?
Quando un colombo viaggiatore intende intraprendere il suo volo verso casa, deve innanzitutto capire dove si trovi casa. E’ questo il grande problema dei meccanismi di navigazione nel mondo animale, comune a tutti i processi di orientamento verso una meta lontana, siano essi di migrazione o di homing (ritorno ad un nido, un territorio o un comune luogo di stazionamento, dopo una dislocazione sperimentale o prodotta da eventi ambientali o comportamentali).
Come ci ha insegnato negli anno ‘50 dello scorso secolo il ricercatore tedesco Gustav Kramer, ogni processo di orientamento da luoghi sconosciuti è basato su di un meccanismo composto da due fasi che chiamò di “mappa e bussola (map and compass)”.
La fase di mappa è quella che permette l’individuazione della propria posizione rispetto alla meta e dunque di stabilire la direzione da intraprendere in conseguenza, guidati appunto da una bussola.
Per derivare informazioni bussolari, gli animali hanno dimostrato di sapersi affidare a sistemi di riferimento differenti quali il sole, la luna, le stelle ed il campo magnetico terrestre.
Su come si possa svolgere la fase di mappa, le nostre informazioni sono del tutto insufficienti, sebbene siano state scomodate le fonti di riferimento più varie: teorie, supposizioni, ma manca ancora una dimostrazione sperimentale convincente del o dei sistemi di riferimento eventualmente coinvolti. Un tempo i marinai facevano “il punto” con il sestante ed oggi tutti possiamo usare un moderno GPS, ma gli animali non hanno né l’uno né l’altro.
La bussola che usiamo noi umani è costituita da un ago magnetizzato libero di ruotare su di un perno, così da disporsi parallelamente alle linee di forza del campo magnetico che, partendo dal polo sud, avvolgono il nostro pianeta fino a quello nord. L’ago indica di conseguenza la direzione del polo nord magnetico, assimilabile ma non coincidente, al polo nord geografico. Antichi naviganti e popoli che migravano su lunghe distanze usavano per orientarsi la Stella Polare, che si trova vicino al polo nord celeste indicando l’asse di rotazione apparente del cielo stellato.
A causa della precessione degli equinozi, il polo si sposta sulla volta celeste e di conseguenza la Polare non è sempre la stessa; ad oggi la α Ursae Minoris, prima stella del timone dell’Orsa Minore è la Polare, distante non più di un grado dal polo celeste. La stella più vicina al polo sud è invece la σ (sigma) della costellazione dell’Ottante, sede del polo sud celeste. Egualmente è noto che il sole a mezzodì culmina in direzione sud e come esso sorga in est tramontando in ovest, nel suo moto apparente. Dunque sappiamo sfruttare tre sistemi di riferimento per derivare la posizione dei punti cardinali ed orientare le direzioni di moto.
Nel mondo animale la possibilità di sfruttare le diverse fonti stimolanti fisiche o celesti è più variegata e dipende molto dai comportamenti delle differenti specie, siano esse sedentarie o migranti. Il sole sembra il sistema di riferimento più diffuso sia tra i vertebrati che gli invertebrati, stando alle evidenze sperimentali. C’è tuttavia una differenza fondamentale per l’uso dei sistemi di riferimento: il meccanismo di percezione magnetico è innato, mentre quello stellare e solare deve essere appreso in periodi giovanili e perinatali. Questo appare dimostrato sperimentalmente almeno per gli uccelli. Così un colombo viaggiatore sa orientarsi con il sole a partire dai due mesi di vita ed un pettirosso sfrutta le stelle dopo un comparabile periodo di osservazione del loro apparente moto notturno di rotazione.
Ma come siamo arrivati a capire come funzionino le bussole degli animali, quale è stata la storia delle ricerche che ci hanno portato a comprenderle? Cominciamo con quella stellare, rimandando le altre a futuri appuntamenti.
Tutto inizia alla Scuola di Marina di Brema, dove oltre a Kramer operavano anche i coniugi Franz ed Eleonore Sauer. Sebbene si fosse da tempo capito che l’orientamento dei migratori notturni fosse più incerto durante le notti di cielo coperto (Fig. 1), dagli esperimenti dei Sauer fu subito chiaro che la completa copertura induceva un netto disorientamento nei migratori notturni da loro testati. Capinere, beccafichi e bigiarelle sceglievano la giusta rotta di migrazione autunnale o primaverile sotto il cielo stellato; quando le stelle non erano visibili “si muovevano senza meta, senza una direzione precisa”.
Una decina d’anni dopo queste indicazioni invero generiche, fu lo statunitense Stephen Emlen a chiarire come stessero effettivamente le cose. Punto cruciale furono le tre serie di esperimenti che condusse sotto il cielo di un planetario con esemplari del passeriforme Passerina cianea allevati a mano in isolamento visivo da qualunque riferimento celeste. Esposti nelle prime settimane di vita (prima della migrazione) ad un cielo “naturale”, rotante attorno alla Polare, le passerine erano capaci di scegliere la normale rotta di migrazione stagionale verso meridione. Era tuttavia necessario che potessero vedere almeno lo spicchio di cielo con un raggio di 35° attorno alla Polare, dove le stelle hanno una velocità lineare di rotazione minore, per individuare correttamente l’asse di rotazione delle costellazioni (Fig. 2 e 3).
Nella seconda serie di esperimenti verificò che lo sfasamento del loro orologio endogeno, attuato anticipando o ritardando i ritmi giorno/notte rispetto a quelli naturali, non aveva alcun effetto sulla scelta direzionale, che dunque era indipendente dal senso del tempo (Fig. 4).
Se la volta celeste del planetario rimaneva fissa, le passerine non apprendevano ad orientarsi nonostante la visione di un cielo stellato naturale.
Un gruppo di passerine fu infine esposto durante il periodo giovanile ad un cielo naturale ma ruotante non attorno alla Polare ma a Betelgeuse, una stella della costellazione di Orione (Fig. 5). Testati in autunno, questi uccelli scelsero una direzione di volo che era per loro “corretta” in rapporto al cielo che avevano potuto vedere, ma errata rispetto alla direzione di migrazione della specie.
Sulla base di tali evidenze, fu facile per Emlen concludere che la bussola stellare era appresa dagli uccelli in un ristretto periodo postnatale di vita, sulla base della osservazione dello schema di rotazione del cielo notturno attorno ad un punto fisso rappresentato dalla Polare.
La bussola stellare, quindi, non è “cronometrica” essendo indipendente dal senso del tempo. Non esistono fattori genetici che la determinano ma deve essere appresa. Emlen pubblicò i suoi risultati sulla prestigiosa rivista Science nel 1970 con un lavoro dal titolo “Celestial rotation: its importance in the development of migratory orientation”. La ontogenesi ed il funzionamento della bussola stellare non era più un mistero!
Crediti
Autore: N. Emilio Baldaccini. Già Professore Ordinario di Etologia e di Conservazione delle risorse Zoocenotiche dell’Università di Pisa. Autore di oltre 300 memorie scientifiche su riviste internazionali e nazionali. Svolge attività di divulgazione scientifica. E’ coautore di testi universitari di Etologia, Zoologia Generale e Sistematica, Anatomia Comparata.