Capita, a chi ama girellare lungo le coste del Mediterraneo, di sentirsi sempre un po’ a casa. Non importa non parlare la stessa lingua, si può comunicare facilmente quando i gesti sono uguali, uguali le espressioni del viso con gli stessi sorrisi scanzonati. Ma la sensazione che i porti abbiano solo i nomi diversi è data dal ritrovare ad ogni scalo identiche linee nelle architetture dei villaggi dei pescatori o le stesse forme animali scolpite nei doccioni delle case gentilizie, ma soprattutto gli stessi oggetti in ogni casa.
Al tramonto, quando il sole è appena sceso e la luce non ha ancora deciso di lasciare spazio al buio, in tutti i piccoli porti delle isolette in cui si frammentano le coste, o nei grandi porti che ancora ospitano gozzi e piccoli pescherecci, vediamo i pescatori che con gli stessi gesti lenti e accurati apprestano reti e nasse, tutte uguali nella funzione e nella fattura, cambiano solo un po’ le forme. E’ il Mediterraneo, il piccolo grande mare che nutre la sua gente attraverso oggetti costruiti con infinita pazienza, intrecciando fibre e rami flessibili.
Così i giunchi (Juncus sp.), finemente intrecciati e incordati, diventano tane senza uscita per granchi, aragoste, polpi e pesci. Le diverse fogge che i pescatori danno alle nasse non cambiano la loro funzione, servono piuttosto a meglio adattarle ai fondali locali. Le tecniche di lavorazione del giunco o dell’erba palustre che vengono impiegate sono, invece, pressochè identiche in quasi tutte le coste mediterranee.
I bassorilievi delle piramidi più antiche mostrano imbarcazioni costruite con fasci di papiro (Cyperus papyrus) legati insieme, con prua e poppa rialzate e il fondo pressochè piatto, che consente loro di non urtare i banchi di sabbia che si trovano a poca profondità, e di attraversare senza danni le numerose paludi. I pescatori di Cabras, in Sardegna, fino a pochi decenni fa, per la pesca nella laguna e negli stagni adiacenti, utilizzavano imbarcazioni di falasco (Cladium mariscus) poco cave, con la prua rialzata e il fondo piatto, is fassonis, che consentivano loro di navigare senza problemi anche su fondali quasi affioranti. Per uguali esigenze sono state usate identiche soluzioni, sia nella forma che nell’impiego della materia prima. Anche se le erbe appartengono a specie diverse, hanno una caratteristica simile che le rende adatte allo stesso scopo: sono piante adattate all’acqua e anche dopo il taglio e la lavorazione mantengono la loro capacità di non marcire.
Così in molti paesi del Mediterraneo le erbe palustri che crescono nelle zone umide retrodunali sono state usate dalle famiglie dei pescatori anche per rendere i tetti delle loro semplici abitazioni impermeabili alla pioggia. Anche le tecniche con cui sono costruiti questo tipo di tetti, ancora osservabili in alcune capanne a Cabras, sono molto simili fra loro.
Le zone umide, sia palustri che di fosso, sono molto aperte, quindi estremamente ventilate; è necessario che anche gli alberi che fanno parte di questo habitat rendano flessibili le loro strutture portanti. Per questa particolare caratteristica salici (Salix sp.) e tamerici (Tamarix gallica), come gran parte della flora arbustiva della macchia, sono estremamente indicati per fornire materiale all’artigianato dell’intreccio.
Per essere utilizzati nella fabbricazione di sedie e canestri i salici vengono potati in modo tale (capitozzatura) che in primavera possano produrre un gran numero di getti adatti ad essere lavorati più facilmente. In Toscana accanto ai fossi che costeggiano gli orti si trovano sempre almeno due o tre salici che mostrano chiari i segni di questo tipo di potatura. Chi scrive ha trovato salici, di specie diverse, ma potati in modo identico, oltre che in varie regioni d’Italia, anche in Jugoslavia, Grecia e Spagna.
La diffusione di oggetti, soprattutto cesti, costruiti con rami giovani di salici, tamerici, filliree, viti, olivo, o con canne, cannucce ed erbe palustri è dovuta soprattutto a due ordini di motivi: l’economicità e la praticità.
I materiali sono reperibili ovunque a costo zero e in famiglia, almeno fino ad un paio di decenni fa, c’era sempre qualcuno in grado di insegnare l’arte dell’intreccio. Tutt’ora non è difficile, per chi frequenta famiglie contadine, trovare un nonno o una nonna in grado di spiegare quando è il tempo di tagliare rami giovani, se devono essere tenuti a bagno e per quanto tempo, e infine come fare per ottenere un bel cestino robusto da quella serie di steli. Il colore delle ceste appena fatte dipendeva dai ramoscelli utilizzati che potevano essere essiccati e conferire un colore chiaro, oppure freschi e perciò di colore verdastro o purpureo. L’unico problema, per chi non è abituato ai lavori manuali, è maneggiare canne ed erbe senza ferirsi, ma per questo bastano un paio di vecchi guanti.
La robustezza e la leggerezza tipiche dei cesti fanno di questi oggetti i contenitori ideali, tanto da essere definiti in alcune regioni del sud, con un termine dialettale che ne sottolinea l’agevole utilizzo, i “comodi”. Da sempre usate per la raccolta della frutta, girellando per i mercati e le campagne della cintura mediterranea, si nota facilmente quanto le forme siano varie e tipiche di ciascun luogo. Se, incuriositi, si indaga sul preciso utilizzo di ognuna, si viene a scoprire come ciascuna particolare forma ben si adatta al tipo di frutta che deve contenere: ceste molto aperte per frutta “delicata” come uva e fichi, strette e alte per frutta che meglio sopporta di essere ammucchiata come gli agrumi o le mele, e così via. Anche il modo in cui sono disposti i rami degli alberi da cui si deve raccogliere la frutta detta la forma dei contenitori: perciò le ceste si adattano anche al tipo di potatura in uso localmente.
Molta parte dei coltivi dell’area mediterranea sono stati ricavati da colline terrazzate, dove i terrapieni sono collegati fra loro da stretti passaggi scoscesi. L’unico aiuto ai contadini viene ancora dato da asini e muli che trasportano utensili e raccolto in ceste attaccate al basto.
Ma non sono solo i contadini ad utilizzare l’arte dell’intreccio, gli allevatori confezionano i formaggi utilizzando le “fuscelle” di giunco. Anche in questo caso ciascuna località ha il “suo” formaggio che prende la forma dal suo specifico contenitore.
Per favorire la fuoriuscita dell’olio dalla pasta delle olive macinate, già in epoca preromana e fino a pochi decenni fa, venivano utilizzati i “fiscoli”, particolari cesti che potevanoessere composti da fibre diverse (cocco, canapa, giunco) e assemblate in cordoncini poi intrecciati in maniera a formare un doppio disco filtrante sigillato ai margini e forato al centro. La pasta di olive si disponeva all’interno dei fiscoli che poi venivano impilati e coperti da un disco pressante per provocare la fuoriuscita dell’olio dalla pasta.
Gli intrecci con cui ceste, fuscelle, fiscoli, sedie, basti, nasse, barche, sono stati costruiti rappresentano solo una delle forme culturali che esprimono lo stretto legame fra la vita popolare e la vegetazione mediterranea.
Chi ama riflettere sulle radici della propria quotidianità, interrogando questi semplici oggetti ascolta racconti che non riguardano la storia ufficiale, fatta di guerre che distruggono, ma mille storie composte di piccoli gesti quotidiani ripetuti infinite volte, capaci di costruire grandi monumenti all’intelligenza e alla laboriosità di donne e uomini che conoscevano esattamente quante volte bisognava fare gli stessi faticosi gesti per ogni fetta di pane, ogni pesce, ogni goccia di olio e ogni pezzo di cacio che ponevano con orgoglio sulla propria mensa.
Crediti
Autore: Anna Lacci è divulgatrice scientifica ed esperta di educazione all’ambiente e alla sostenibilità e di didattica del territorio. E’ autrice di documentari e volumi naturalistici, di quaderni e sussidi di didattica interdisciplinare, di materiali divulgativi multimediali.