Prendiamoci cura della Terra

L’Upupa, uccello del mito

“Upupa, ilare uccello calunniato
dai poeti, che roti la tua cresta
sopra l’aereo stollo del pollaio
e come un finto gallo giri al vento;
nunzio primaverile, upupa, come
per te il tempo s’arresta,
non muore più il Febbraio,
come tutto di fuori si protende
al muover del tuo capo,
aligero folletto, e tu lo ignori”

Eugenio Montale – “Ossi di Seppia”

In molte zone d’Italia viene chiamata Galletto marzolo; il nome deriva in modo del tutto azzeccato da due delle sue principali caratteristiche: galletto perché inalbera una cresta mobile e visibilissima; marzolo perché da noi arriva giusto in marzo, essendo un uccello migratore. Uno dei “visitatori d’estate”, cioè di quelle specie che ci raggiungono per nidificare, allevare la prole nella buona stagione e poi tornarsene ai caldi lidi africani, a sud del deserto del Sahara. Il nome italiano riconosciuto di Upupa  (Upupa epops), così come quello del genere cui appartiene, è onomatopeico richiamando il verso emesso all’epoca delle cove e ritenuto lugubre e foriero di sventura od al contrario di buon auspicio. Certamente ben identificabile ed udibile nella quiete di un bosco ceduo o di un oliveto collinare, a fare il paio con quello del cuculo nell’annuncio della primavera.

Upupa (Upupa epops). Foto di Thomas Figura CC Pubblico Dominio

I suoi colori sono di una estrema sobrietà ed eleganza, con le ali e la lunga coda fasciate di bianco e di nero, la testa, il collo ed il corpo di un tenue cannella rosato, eguale per i due sessi. Inconfondibile la cresta erettile, costituita da coppie di piume graduate che porta ripiegata all’indietro, per dispiegarla in avanti nei momenti di allarme, di eccitazione territoriale, nel corteggiamento e quasi fosse un riflesso di equilibrio, anche quando atterra. Altrettanto caratteristico è il lungo becco lievemente ricurvo, non massiccio ma ben adatto a frugare nel terreno o sotto le cortecce alla ricerca di cibo. Vermi, insetti e loro larve, chiocciole e più raramente lucertole e toporagni, non disdegnando qualche piccolo nidiaceo di passeriformi.

Upupa al nido con cibo per i piccoli. Foto di Aldo Sanmartin

Ha ali relativamente larghe e dal profilo arcuato, che muove in modo lento e quasi a tratti svogliato, tanto da ricordare il volo delle farfalle. Ma non è certo sprovveduto, sapendosi muovere anche velocemente allorché minacciato da un falco pellegrino a cui furbescamente sfugge rifugiandosi tra il folto dei macchioni. Quando capitava che cadessero nelle nostre reti in Sardegna erano buffissimi, restandoci appiccicati ad ali aperte così come vi si erano imbattuti, fermi senza fare alcun altro movimento per liberarsi. Sembrava quasi che ci aspettassero per tirali fuori dai guai e riprendere il volo verso un nido, dove di certo li aspettava una affamata nidiata. Era infatti maggio, l’epoca degli amori.

Le loro parate nuziali sono davvero curiose a vedersi, con i maschi che, a terra o sui rami, si sollevano impettiti inarcando il collo all’indietro, dispiegando ali e coda ed esibendo completamente la cresta fin quasi a toccare il becco. E’ allora che più facilmente si ode il loro verso ritmato fatto da una sequenza di brevi emissioni trisillabiche, spesso tradotte con un pu-pu-pu od anche con un bu-bu-bu. Da questo deriva il nome di bubbola, con cui è conosciuta nel fiorentino o quello senese di puppola.

Upupa nel nido. Foto di Aldo Sanmartin

La nidificazione avviene in buchi di alberi od in crepacci di roccia ed è in qualche verso eccezionale in quanto il nido è definito sui testi come di ”intollerabile fetore”. Effettivamente lo è, ed è dovuto al fatto che le feci dei nidiacei non vengono rimosse da parte dei genitori e fermentando assieme ad avanzi di cibo lo trasformano in un piccolo letamaio. Al tutto si aggiunge che femmina in cova e piccoli emettono da una ghiandola posta sopra l’inserzione della coda (ghiandola dell’uropigio) un essudato fetido. In natura difficilmente qualcosa avviene per caso  senza un risvolta adattativo, così un tale fetore viene interpretato come strategia antipredatoria, al pari di quanto accade in certi mammiferi come le puzzole.

Cura dei piccoli. Foto di Aldo Sanmartin

La cova è compito esclusivo della femmina, ferma nel nido per una quindicina di giorni, spetta dunque al maschio provvedere alla compagna portandole il cibo. La cura dei piccoli è invece comune. Il numero di uova deposte è elevato e se la media è di cinque, si può arrivare a 12. Il legame familiare è abbastanza duraturo anche dopo la schiusa dei piccoli e spesso si notano episodi di foraggiamento comune delle famigliole. E’ stata notata una certa filopatria, tanto che lo stesso nido può essere usato per più stagioni di seguito dallo stesso individuo; la cosa certo non sorprende tenendo conto che un buco d’albero non è certo a disposizione ovunque, rappresentando dunque una risorse preziosa.

Giovane di Upupa nel nido. Foto di Charles J. Sharp CC- Pubblico dominio

Le upupe come specie si sono originate in aree africane tropicali, al pari di gruccioni, gazze marine e martin pescatori, tutte specie che da migratori hanno poi esteso il loro areale di presenza verso nord, raggiungendo l’Europa; mancano tuttavia nelle parti più settentrionali di essa.

Vale la pena di ricordare il posto che l’Upupa ha avuto nelle tradizioni, credenze, simbologia e cultura di popoli diversi ad iniziare dagli egizi, dove la troviamo spesso raffigurata all’interno di sepolture. Nei testi iniziatici essa è associata alla figura di Salomone che se ne serviva come messaggero e confidente. Non solo portava gli ordini del re ai sudditi ma questi gli aveva rivelato i segreti dell’eternità. I segni di tale stato erano testimoniati dalla sua corona di piume ed ancor più da un ornamento che portava sul petto, indicatore della sua conoscenza del mondo invisibile (forse in riferimento ad una nota rosea di colore che orna appunto il petto?). Salomone era un sapiente ed aveva trasmesso al suo preferito alato il suo vasto sapere, simboleggiando la sapienza stessa dall’Upupa trasmessa con umiltà e modestia come si conviene ai depositari dei divini misteri!

Nel racconto persiano “Il verbo degli uccelli” di Farid-ud-Din’Attar, gli uccelli si riuniscono per eleggere il loro re. L’upupa, consapevole di detenere i segreti della creazione, dirigeva l’assemblea e rivela loro che un re già ce l’hanno. Il suo nome è Simurg che risiede in un luogo lontano ed inaccessibile, proponendo di andargli a far visita. Dopo un viaggio tremendo e periglioso  i sopravvissutivi giungono e lì l’upupa va incontro ad una metamorfosi trasformandosi in Simurg stesso.

Il commediografo ateniese Aristofane, massimo rappresentante della commedia attica antica, riprendendo il mito di Tereo re di Tracia e figlio del dio Ares, che viene trasformato dagli dei in Upupa, la elegge a protagonista della commedia “Gli uccelli”, in cui ne fa un capo popolo, facendole dire: “Subito qui, chi come me ha l’ali; / voi che vi sfamate sui poderi agresti / chi in montagna sgranocchia / bacche d’oleastro e di corbezzolo / forza, tutti di volo al mio richiamo!”.

Upupa in volo. Foto di Martin Mecnarowsk CC Pubblico dominio

Questo mito di uccello sapiente, conoscitore dei segreti più reconditi del divenire umano, si perde tuttavia nel buio de Medio Evo cristiano. Là fu ritenuto dai Padri della Chiesa uno spregevole mangiatore di immondizia e contrapposto alla grazia dell’uccello del paradiso. Le posizioni di San Cirillo e San Gerolamo furono riprese e tramandate nelle illustrazioni dei bestiari dell’epoca, dicendolo uccello immondo, infernale, capace di rendersi invisibile. Una non precisata erba di cui si serviva per fare il nido, aveva la il potere di mascherarne la presenza e chiunque se ne impadronisse avrebbe potuto rendersi a sua volta invisibile! Un potere magico che ben serviva ad inquietare gli animi.

Il colpo finale alla reputazione dell’Upupa l’ha poi data il Foscolo con i suoi Sepolcri, carme che molti di noi han dovuto faticosamente mandare a memoria fin dai tempi delle scuole medie. La fece uscire da un teschio “ove fuggia la luna”, svolazzare sulle croci della “funerea campagna”, emettendo “l’immonda un luttuoso singulto”.

Penso tuttavia che le negative iperboli foscoliane siano solo il frutto di un errore e che l’Autore si riferisse in effetti al comportamento ed ai richiami del notturno allocco, che ben si addicono alle descrizioni del poeta e, se proprio vogliamo, di una più modesta civetta. Chissà! Di certo c’è che l’Upupa tutto è meno che un uccello notturno e che il suo richiamo è si monotono e ripetitivo ma non certo luttuoso. Egualmente il suo volo leggero, l’aprirsi ed il chiudersi delle ali bianco-nere, il suo stesso apparire alla fine dell’inverno, non può che rallegrare l’animo di chi in lei si imbatte.  

Crediti
Autore: N. Emilio Baldaccini. Già Professore Ordinario di Etologia e di Conservazione delle risorse Zoocenotiche dell’Università di Pisa. Autore di oltre 300 memorie scientifiche su riviste internazionali e nazionali. Svolge attività di divulgazione scientifica. E’ coautore di testi universitari di Etologia, Zoologia Generale e Sistematica, Anatomia Comparata.